Ci troviamo in una situazione globale profondamente segnata dall’impatto della pandemia Covid-19 sulla società nel suo insieme ma anche sui singoli.
Un sondaggio pubblicato dal Word Economic Forum, ha rilevato che il 90% dei “cittadini del mondo” auspicano di vivere in un mondo più sostenibile ed equo per tutti e che il 72% si aspetta una trasformazione nel proprio stile di vita, piuttosto che un ritorno al passato.
In questo panorama, così diverso da prima e più attento non tanto alla quantità dell’essere, quanto piuttosto alla qualità, è indispensabile per l’impresa porre una rinnovata attenzione all’impatto delle proprie scelte operative, dei propri processi produttivi e di come le relative ricadute siano a beneficio della collettività. Possiamo dire, insomma, che va ripensata la strategia aziendale a livello sociale.
“Continuiamo a valutare il successo su basi unicamente finanziare. E’ bizzarro e superato. Le nostre metriche finanziarie, così come la misura della ricchezza di un paese basata sul PIL, stanno creando diseguaglianze sociali e degrado ambientale”, ha affermato in un intervento al vertice WEF Alan Jope, Chief Executive Officer di Unilever.
Effettivamente, la stessa pandemia dipende da un fenomeno di spillover, cioè un balzo interspecie di una patologia, un virus o un batterio, in questo caso da un pipistrello all’uomo. Per approfondire, vi rimandiamo a un articolo pubblicato dal WWF. Tra le cause principe del fenomeno dello spillover, possiamo individuare alcune scelte poco oculate ed espansionistiche di alcuni settori economici, come ad esempio quello alimentare per la smaniosa necessità di crescità in ambito produttivo, dove le aziende espandano i loro territori, le loro factories o più in generale il loro campo operativo in aree naturali precedentemente intonse. Questo comportamento rende purtroppo "naturale" che ci sia una spirale distruttiva a doppio senso: tanto noi come specie impattiamo sulla flora e la fauna, quanto la flora e la fauna impattano su di noi, con risultati spesso non calcolati.
Senza cercare esempi complessi, basti pensare all’impatto che la deforestazione dell’Amazzonia ha avuto (e sta avendo) sul nostro ambiente. Inoltre dobbiamo altresì tenere in considerazione che la modifica di questi legami (vedi l'abbattimento forestale e relativo impatto ambientale / climatico) ha una dimensione che non è più locale ma bensì globale. Con studi e dati ormai comprovati.
Anche se troppo a rilento però fortunatamente qualcosa si muove ed il paradgima del futuro, già dall’agosto del 2019, ha visto un piccolo accenno di cambio di rotta quando un nutrito numero di Ceo delle multinazionali statunitensi più influenti del pianeta, riuniti nella Business Roundtable, hanno dichiarato di voler cambiare completamente il paradigma fondativo delle proprie aziende. Aziende come Cisco Systems, Ibm, Apple, Amazon, Walmart, JP Morgan Chase, General Motors, Boeing si sono pubblicamente espresse a favore di un business più etico e sostenibile.
A supporto di tale indicazione il "valore prodotto" non deve essere più considerato dedicato ai soli azionisti, ma deve essere un risultato condiviso tra chiunque contribuisca a generarlo: dipendenti e clienti insieme a tutta la società e al territorio che abita, ovvero a coloro definiti come stakeholder. È giunto il tempo della creazione di valore condiviso.
Ma cos’è la Corporate Social Responsability (CSR)?
Ufficialmente definita nel 2001 dalla Comunità Europea come: «l’integrazione su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali e ambientali nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate» la CSR, ovvero la Corporate Social Responsability, non è solo una sigla ma un nuovo concetto, una nuova visione del futuro. Ed è, come accennato in precedenza, diventata ormai così rilevante da essere sbandierata come priorità nelle strategie delle principali corporation globali.
In una società dove i singoli sono sempre più attenti alle conseguenze di cosa comprano, come lo comprano e quando lo comprano, non esiste più ambito d’impresa che possa essere lasciato senza il dovuto monitoraggio.
E’ un cambiamento di paradigma non così rivoluzionario, in fondo, se pensiamo al mondo come ad un sistema. All’interno di questo sistema, compromettere una funzione per favorirne un’altra, inevitabilmente è un gioco in perdita, perché alla lunga andrà a compromettere l’esistenza del meccanismo intero. Favorire il profitto trascurando, ad esempio, la felicità dei propri dipendenti, farà sì che in azienda si lavori male, con superficialità e senza dedicarsi con impegno ai compiti necessari. Traslato in un assetto più globale, questo discorso è ancora più evidente: guadagnare inquinando è un danno per tutti, anche per chi fa profitto.
Dentro alla CSR sono molti gli argomenti e le tematiche che si possono affrontare: dall’inclusività e la parità di genere, tutte le tematiche green legate alla sostenibilità aziendale, fino ad arrivare ad una più corretta redistribuzione a tutti gli stakeholder tramite pratiche a forte impatto sociale.
Corporate Digital Responsability (CDR), la CSR applicata al digitale
Mentre ormai di CSR si parla da diversi anni, anche nel nostro paese, l’ambito della CDR rimane più inesplorato perché più legato ad una tematica emergente come il digitale. Per CDR si intende infatti Corporate Digital Responsability, cioè un insieme di pratiche, norme e comportamenti atti ad un utilizzo corretto della tecnologia e del digitale in ambito sociale, etico, economico e ambientale.
Siamo tutti d’accordo che ormai sia imprescindibile avere una soluzione digitale, smaterializzata, delle nostre interazioni. Meeting su Zoom, videochiamate, procedure di lavoro condivise per lo smart-working, monitoraggio remoto, fino ad arrivare a progetti avveniristici come Microsoft Mesh. Questo traffico, questo flusso di dati (e mole di energia per produrli) non può e non devono però essere slegati dai punti toccati in precenza. È definitivamente finita l’epoca in cui la sfera digitale poteva permettersi di essere una sorta di zona franca rispetto alla sfera “analogica” in ragione della sua marginalità. Come? In moltissimi modi, per fare qualche esempio:
- a livello di privacy, garantendo la protezione dei dati personali, il loro impiego attento e sensibile e la protezione da attacchi mirati a rubarli. Integrando pratiche di validazione ed eliminazione dei dati e politiche di cybersecurity;
- o ancora, a livello ambientale, con un occhio di riguardo per il loro consumo energetico, specialmente su processi energy-intensive come la data factory ed eliminando l'obsolescenza programmata dei dispositivi digitali e/o smart.
Possiamo dire quindi che la CDR, dato l’impatto che il digitale ha nella vita quotidiana non solo delle persone, ma anche delle aziende, è una naturale evoluzione della CSR. Di cui ne è e sarà un pezzo fondamentale.